
di Alberto Malcangi
Sono lì, sul divano, e mi sento come se fossi su di una scialuppa, con la nave affondata e la terra che non si vede ancora. Sto guardando la TV, come sono solito fare la sera, quando rientro stanco dal lavoro. Oggi però non sono andato a lavorare; è una settimana che non ci vado e non ho nemmeno capito se sono in ferie, in cassa integrazione o in attesa di licenziamento. C’è questa suspence, che per il momento non si risolve, in attesa di vedere se il prossimo stipendio verrà accreditato, oppure no.
Suspence non è una parola italiana ma inglese, esiste anche in francese, ma non in italiano. Viene dal latino “suspense”, che è un avverbio e vuol dire “in sospeso”. La suspence è quella cosa che ti lascia col fiato sospeso perché non sai come andrà a finire e, per un attimo, ti si blocca il respiro.
E quindi niente, sono lì, sul divano, che guardo il telegiornale, solo che non sono affatto stanco, almeno fisicamente. Il resoconto della giornata riguarda una sola notizia, che si rinnova di volta in volta, nell’attesa generale. La suspence – sembra quasi un oltraggio dirlo così – è quella dei numeri dei nuovi infettati, dei guariti e dei deceduti.
E io sono lì, sul divano, col fiato sospeso che attendo quei numeri mentre al computer osservo i grafici, le curve di crescita della pandemia, per farmi un’idea. E in questa situazione terribile mi accorgo di una cosa: tutto ciò che è numerico, calcolabile, mi affascina. Mi piace credere che i modelli matematici ci possano dire
se ce la faremo e quando. Soprattutto quando, perché… come potremmo non farcela? Eppure, quei numeri, quei grafici, riportano anche il dato di chi non ce l’ha fatta.
Storie angoscianti di persone che vengono portate all’ospedale e delle quali i parenti non sanno più nulla, non sanno se quel momento in cui escono di casa non sarà anche l’ultima volta che li vedono. Allora penso a quali sguardi ci si possa scambiare in certi frangenti e a quello che succede dopo, nelle vite degli uni e degli altri.
E io sono lì, sul divano, che penso a tutto questo, col fiato sospeso e… mi manca il respiro. Comincio a tossire, tossisco sempre di più. Con la mia compagna decidiamo che è meglio dormire separati e domani chiamare il medico.
La mattina dopo mi fanno male i polmoni e mi misuro la febbre: 37,1. Mi dico: “Ok, stavo bene, poi mi è mancato il respiro, poi mi è venuta la tosse, ora mi fanno male i polmoni (anche a lei) e mi sta venendo la febbre”. Alla fine, il medico mi dice che la procedura per il tampone a domicilio la attiverà lunedì pomeriggio, quindi c’è da far passare il fine settimana. Venerdì sera, sabato, domenica, lunedì mattina. Il tempo scorre lentamente, io so che in caso di crisi respiratoria devo chiamare l’ambulanza. La temperatura intanto è tornata alla normalità.
È mattina, fuori c’è il sole, la casa di fronte è dipinta di giallo. Ricordo un momento di tanti anni fa, quando non c’era internet e non c’erano i computer e io, poco più che adolescente, scrivevo pensieri e poesie con una Olivetti Senator 5, una macchina per scrivere meravigliosa, con la durezza dei tasti che si poteva regolare di intensità. La luce di quel giorno sembra la stessa di oggi, così come quel muro, quel silenzio. Non ricordo la poesia che scrissi, soltanto gli ultimi versi. Diceva così:
… di questo sole / e del vento, / tutto contento / di non pensare.
Ricordo il mio sguardo che come ora si posava sul giallo del muro, su quei colori pastello, netti, definiti, eppure tenui. A differenza di oggi, all’epoca non avevo alcuna esperienza di pratiche di meditazione ma
durante quella contemplazione estatica avevo lasciato a terra tutti i miei timori e le mie difficoltà di adolescente.
Una vicina, intanto, sta chiamando il gatto. È una signora anziana e dal tono della voce traspare la preoccupazione, perché Momo non si fa vedere da un po’. Dal mio balcone, tuttavia, li posso osservare entrambi: la signora nel suo cortile, che cammina avanti e indietro, preoccupata. Il gatto poco più in là, sul tetto del vicino, accovacciato e totalmente indifferente ai richiami.
Allora non posso fare a meno di pensare a mio padre e a mia madre, quando chiamavano il gatto che mancava da giorni e io mi immaginavo sempre questo animaletto sperso, affamato, che per qualche motivo aveva bisogno di sentire la loro voce per ritrovare la strada. Il gatto arrivava correndo e in quella corsa sembrava ci fosse un “finalmente, ce l’ho fatta!” e la prima cosa che loro dicevano era “Ma dove sei stato? Sciocco!”.
Raramente abbiamo una visione aerea della situazione in cui ci troviamo.
Ecco quindi che fuori dalla finestra, a poca distanza da me, vedo due momenti del mio presente e del mio passato, due distanze spaziali e temporali differenti.
E niente, io sono qui, sul divano, che scrivo. La tv è spenta, sono calmo e distante. Il tempo sembra fermarsi, schiacciato su se stesso, e tutto sembra galleggiare nell’immobilità. Mi muovo in questo spazio nuovo,
congelato, dove gli oggetti che mi circondano sono storie, percorsi, incontri, attimi di vita passata – mia e di molte altre persone – che qui sembrano convergere.
Siamo abituati ad osservare gli oggetti, a servircene: cose inanimate, statiche. A volte ci domandiamo rispetto alla loro storia e alla società che li ha prodotti, come se anch’essa fosse un oggetto, fosse “oggettiva”. Dietro ogni cosa, tuttavia, si cela la trama dell’intenzionalità umana, un universo intangibile, fatto di sogni, aspirazioni e paure, eppure più solido della materia a cui ha dato vita.
Dalla prospettiva di questo divano, vedo in quella foto incorniciata un progetto che è rimasto sospeso; nel termosifone l’aspettativa delle ferie di chi l’ha installato; in quella semplice lampada a muro, di produzione industriale e acquistata in un grande magazzino, posso scorgere le vite di decine, centinaia di persone a cominciare da chi l’ha pensata fino ad arrivare al ragazzo dell’antitaccheggio che, con un po’ di imbarazzo, mi ha chiesto di controllare lo scontrino.
Ciò che ci circonda non è semplicemente un manufatto che ci riporta alla vita quotidiana di un individuo ma un progetto, un atto lanciato nel futuro e quasi sempre uno scarto tra il futuribile desiderato e il futuro che poi l’ha raggiunto, diventando presente e quindi memoria, orgoglio o rimpianto. Quello scarto è la traccia dell’incontro di più intenzioni umane, forze diverse che hanno tirato e allentato le maglie di quella rete invisibile e infinita di relazioni, forgiando quel mondo solido e denso che chiamiamo “realtà”.
Sono su questo divano e mi sento come se fossi su di una scialuppa, la nave è affondata e la terra non si vede ancora. Non so come sarà, so solo che sarà differente, perché anche se ora dobbiamo preoccuparci
esclusivamente di stare a galla tra le onde, nuove immagini si affacciano alle nostre coscienze e un futuro diverso ci attende e sembra chiamarci a sé.