Di terra e di pietra – Intervista all’autore Giammarco Pisa

Forme estetiche negli spazi del conflitto, dalla Jugoslavia al presente

di Tiziana Landra

Quando Gianmarco Pisa ha presentato il suo nuovo libro, Di terra e di pietra, il 10 dicembre scorso non avremmo pensato di assistere sgomenti ad una nuova guerra in Europa. A maggior ragione ci sembra importante lasciare traccia e memoria del lavoro umile e sentito che tante persone compiono per aiutare a rimarginare le ferite della guerra e per coltivare quelle azioni e quegli atteggiamenti mentali che permettono di non arrivare alla guerra. Di seguito, sotto forma di domande e risposte, una breve sintesi dell’interessantissimo incontro con Gianmarco. 

Ci puoi spiegare cosa intendi quando dici che questo libro è frutto di una ricerca-azione?

Il libro sviluppa quei patrimoni di conoscenze che sono andati maturando nel corso delle missioni svolte ed è interamente frutto di un lavoro sul campo. Gli itinerari dei patrimoni culturali, dei luoghi della cultura e della memoria, le città di cui si svolge la descrizione, i singoli beni del patrimonio messi a tema, di molti dei quali si offre una galleria fotografica, sono stati direttamente esplorati sul territorio, con il supporto di materiali di documentazione, in alcuni casi organizzati prima della partenza, in altri casi raccolti nei territori di destinazione. È stato così possibile costruire una mappa, in primo luogo concettuale, attraverso le repubbliche della ex Jugoslavia, e, in particolare, interrogarsi sul tema del libro, vale a dire i patrimoni culturali e i luoghi della memoria per il superamento del conflitto e la costruzione della pace, in relazione allo sfondo storico e al contesto territoriale in cui questi luoghi, beni ed emergenze del patrimonio culturale, si stagliano. Parliamo, in molti casi, di monumenti, memoriali, sculture simboliche che intrattengono una relazione con il paesaggio e mantengono un’attinenza con le ragioni politiche, sociali, storiche in ultima istanza, che sono state all’origine della loro ideazione. 

Credo che tutti si pongano la domanda: cosa ha scatenato la guerra dei Balcani di cui tutti ricordiamo atrocità che sono quelle dei momenti più bui della storia?

L’origine e le motivazioni del ciclo di guerra nei Balcani, l’insieme delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia, rappresentano, ancora oggi, una questione storico-politica su cui interrogarsi. Si tratta di un ciclo, che spazia dalla breve guerra in Slovenia del 1991 sino alla guerra in Macedonia del 2001, passando per la guerra in Croazia, la guerra di Bosnia, tra il 1992 e il 1995 e, evidentemente, la guerra del Kosovo, tra il 1998 e il 1999. Quelle atrocità sono impresse nella memoria, sebbene non a tutte, nei Paesi occidentali, sia stata riservata la stessa, doverosa, attenzione: gli oltre 1300 giorni dell’assedio di Sarajevo; le feroci operazioni Lampo e Tempesta contro le popolazioni serbe nella Slavonia e nella Krajina durante la guerra di Croazia; le violenze interetniche nel corso del conflitto serbo-albanese in Kosovo. La lettura generale che se ne può dare è quella della connotazione etno-politica del conflitto: conflitti in cui la variabile etnica e le questioni nazionali venivano recuperate e strumentalizzate in chiave nazionalistica e per gli scopi di potere delle élite dominanti. Un’operazione di chiaro segno post-jugoslavo, se solo pensiamo al fatto che uno dei motti della Jugoslavia Socialista era quello della “fratellanza e unità” dei popoli e che celebre era il monito di Tito di «proteggere la fratellanza e l’unità, come la pupilla del nostro occhio». Una lettura più profonda, tuttavia, potrebbe porre l’accento sui fenomeni disgregativi di lunga durata, che scavavano nel profondo l’edificio federale e unitario jugoslavo: la recessione economica, la crisi del debito, la messa in discussione dei meccanismi redistributivi e della solidarietà, economica e politica, tra le repubbliche federate, e poi la morte di Tito (1980), le difficoltà legate alla successiva gestione collegiale, la messa in discussione, sullo sfondo, dei criteri che avevano regolato l’equilibrio bipolare in Europa. 

Ci puoi raccontare alcuni dei monumenti e delle opere d’arte che hai studiato? Che valenze e che ricadute politiche e sociali hanno assunto?

Si tratta di monumenti importanti, sia sul versante storico, legato alle motivazioni storiche e ideologiche che erano alla base della loro concezione, sia sul versante propriamente artistico, perfino estetico, per i messaggi veicolati dalla loro simbologia o per il tratto della loro configurazione artistica. Si potrebbe partire dal monumento la cui foto costituisce anche la copertina del libro, vale a dire il noto “Fiore di Pietra” di Jasenovac, capolavoro di Bogdan Bogdanović, del 1966: un fiore di cemento in effetti, che da un’ampia espansione delle radici basate sul terreno si protende negli ampi petali che definiscono la foggia di uno splendido fiore, simbolo, letteralmente, della vita e della speranza che rinascono sul fondo dell’orrore e della morte che su quel terreno, dove si trovava il lager di Jasenovac, avevano imperversato. Anche Bubanj, presso Niš, in Serbia, è stato luogo di eccidi perpetrati dai nazisti, e anche in quel contesto sorge un complesso memoriale, con tre imponenti e importanti sculture megalitiche, i “Tre Pugni”, opera di Ivan Sabolić, del 1963. Profondamente jugoslavo è anche il Monumento “Fratellanza e Unità”, che tuttora campeggia nel centro di Prishtina, capoluogo del Kosovo, uno dei capolavori di Miodrag Živković, del 1961. Sono, al tempo stesso, emergenze artistiche, testimonianze di un tempo che fu; luoghi della memoria, il cui messaggio continua a stagliarsi nello scenario del presente, pur in un contesto politico e culturale completamente mutato.

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